Il silenzio e il grido, il nero e il rosso, sono queste le cifre che connotano i due protagonisti de Il re del tango, Miro e Nina.
Come i passi di due ballerini, presente e passato si rincorrono lungo le pagine del libro, e ogni pagina aggiunge un dettaglio, un particolare alla figura di quest'uomo fatto di musica attorno al quale ruota il racconto. Un racconto che, come caratteristico di Carla Menaldo, si sostanzia di dettagli all'apparenza insignificanti, dilatati fino a riempire la narrazione: il gelsomino abbarbicato alla facciata della casa ligure, i pini che piangono neve nell'inverno di riviera, il pavimento di legno tirato a cera di un interno parigino.
Silenzio è la chiave di un uomo che non parla quasi mai, nel libro, e quando anche apparentemente lo fa, non si tratta di discorsi diretti ma sempre di ricordi scolpiti nella memoria dell'io narrante, quasi fossero frasi incise su un muro a testimoniare la realtà di una storia dalla consistenza effimera, un sogno o un fantasma. Rare le eccezioni, quando Miro parla di musica, e allora - solo allora - il suo parlare si fa concreto, reale.
E come non parla, così Miro sembra non avere emozioni, impermeabile, tetragono ai sentimenti che lo circondano. Anche la rabbia e il dolore, in Miro, sono silenziosi, come quella nostalgia totalmente autoreferenziale che trasforma ossessivamente l'assenza di Nina nella sua musa. Un personaggio "sbagliato" in un libro di Carla Menaldo, paradossalmente "stonato", perchè indifferente alla pioggia di emozioni e sentimenti di cui si sostanziano sempre i suoi protagonisti, nelle cui vene pulsano passione, dolore, rabbia: quella vita che fa gridare la ribellione di Nina ma che Miro, di fatto, non riesce mai a far sua veramente, cosicché quando si giunge a fiato sospeso al termine dell'ultimo tango, viene invevitabile chiedersi come possa un libro (o un uomo?) fatto di musica essere così insopportabilmente silenzioso.
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